Potete leggere la seconda parte qui
Non esistono altri parenti se non quelli lontani.
Quelli del nostro immaginario di bambini, prima di tutto. Perduti e mitizzati nell’esegesi di vecchie prozie sopravvissute ai cataclismi del tempo: lo zio Arcangelo, da non ben identificati “cannibali” africani trucidato (e poi divorato) quale martire conteporaneo e conservato – reliquia di stinco mummificato – in un sacrario luogo perduto tra i tetti e gli sgabuzzini della grande casa magica in cui Carlino trascorre infanzia e giovinezza; oppure quelli ancora da recuperare, i famosi Zii d’America, i fortunati, coraggiosi emigranti scampati a un destino di miseria feroce e degnamente rappresentati, al Paese, da tutto ciò che dell’America ne porta il sentore: apparecchi elettrici, frigoriferi, televisori, automobili; accessori per la toeletta, creme, bibite, canzoni, dischi, gruppi musicali, storpiature stridenti di benedizioni battesimali (Richard, Charles, William).
E poi ci sono quelli di cui non si sa più nulla: morti, sepolti, dispersi, partiti, dimenticati. Dall’America, dall’Argentina, dal Brasile, dalla lontanissima Asia riafforano, un passato pronto a ridestarsi quando meno te lo aspetti, grazie a smunte fotografie in bianco e nero pubblicate dalla locale gazzetta dell’emigrante, in cui riconosci (o ti pare di farlo) vecchi conoscenti, secondi cugini, lontani bisnipoti da parte materna, e finanche, impressi per caso, di traverso, in un angolo remoto dello scatto, giovani genitori alla prese coi primi sorrisi della vita adulta, carichi di aspettative e nostalgia.
Sicché, in brusca inversione di ruolo, i parenti lontani divengono coloro che – mai innalzati prima a rango di individui degni di memoria, ricordo e affetto – nel bene e nel male hanno popolato la nostra, quotidiana, esistenza di ragazzi di paese.
Nonnilde, un Mr Scrooge moderno e nichilista con tutto il suo carico di vestiti neri listati a lutto, grani di collane, sguardo arcigno da corvo menagramo, ira facile, borbottio continuo, naso e orecchie sempre all’erta.
E poi la caterva di zii, grassi e magri, lavoratori indefessi e perdigiorno senza ritegno, zitelli e ammogliati; genitori di frotte di cugine profumose, dai seni grossi e pesanti, sensuali e adolescenti, vergini promesse spose e candide amanti.
Un turbinio di personaggi così fantastici che più veri di così non si potebbe – ché ci pare di averli conosciuti tutti, uno per uno – persi in un realismo magico che va da Marquez all’Allende (e per parlar de’ no’ artri ricordiamo Ugo Ricciarelli con il suo “Il dolore perfetto, AME 2005”), e che ha attraversato tempi e Paesi, quale strumento d’eccellenza nell’economia del romanzo di formazione.
Quindi si sospenda il giudizio su presunte incredulità, coincidenze mirabolanti e incastri perfetti – una su tutte, secondo noi la più riuscita, l’apparizione di Charles, che come principe azzurro – alcolizzato e depresso, by the way, ma questo si scoprirà soltanto più tardi – si materializza, in tripudio di rombi e motori, benedetto da un sole d’autunno brillante, glorioso e terrone, svoltando l’ultima curva prima della piazza a cavallo dell’automobile magnifica e corredato da quattrini e moglie gnocchissima.
Il tutto è condito da paesaggi epici, evocativi, che amplificano i sentimenti e la magia del vivere attraverso il reale del quotidiano (una contestualizzazione specifica e particolareggiata) tramutato in magico e fantastico: gli appennini persi nella bruma della sera, la campagna pervasa dall’odore dell’estate e dal ronzio degli insetti, ma soprattutto, permeata da un’energia cosmica molto più potente – si scoprirà dopo – di quella svaporata da uno stinco putrescente, vero o falso che sia (si ricordi cosa dice Charles delle dita di San Gerolamo, moltiplicate almeno per cinque), o dalle arti circensi di un santone dalle (in)dubbie origini – dicevamo, la grande casa di famiglia, abbarbicata sul dirupo ed esposta, per tutte le sue quattro parti, ai venti gelidi dell’inverno e al sole a picco dell’estate meridionale.
Regni incontrastati di spifferi e polvere, le stanze e i corridoi labirintici di cui è composta – quasi fosse antro di una nuova (o antica) Sibilla Cumana (e Nonnilde non sfigurerebbe nel ruolo) – rivelano a Carlino il loro ruolo di vati, mutevoli e misteriosi, quasi fossero porte cangianti aperte su mondi nuovi e universi paralleli; di notte, quando il bambino, costretto dall’insonnia e dall’irrequietezza incipiente, non può fare altro che – aprendo e chiudendo gli interruttori a farfalla, spinto dal buio e dallo spavento – passarli uno per uno, i piedi gelidi a contatto con le mattonelle sbreccate dell’impiantito, nella ricerca (talvolta vana) del rifugio della sua stanzetta.
Saranno i rumori della notte ad accompagnarlo alla scoperta del flusso di energia, richiamo della terra e musica dell’animo, di cui la casa è fedele custode: il sonoro russare degli zii, i sospiri di estasi erotica delle cugine semi addormentate, il fruscio delle carte che Nonnilde gira e rigira tra le mani, china alla scrivania dello studio.
Le stanze abbandonate alla polvere rivelano pale d’artista sepolte sotto pesanti drappeggi, libri antichi dimenticati e accatastati in un tripudio di umido e muffa, accessi nascosti, mimetizzati da vecchie carte da parati ormai ingrigite dal tempo, che conducono a scale e corridioi misteriosi che sbucano, a loro volta, dopo giravolte e contorsioni, a sottotetti ricolmi di magia (si veda la stanza delle reliquie di zio Arcangelo) e abbaini a picco sul nulla del cielo e del mare (che non si vede mai, ma forse anche sì, solo se tieni gli occhi ben chiusi).
Seconda parte
Seconda parte