"Andorra", di Peter Cameron

Se è vero che l’hipster look&mood sta perdendo il suo fascino, inficiato da ciò che più aborriva agli esordi – la codificazione dello stile – è certo invece come il dandy di invenzione Cameron-esca goda al contrario di ottima salute. Anche in maniera retroattiva, come dimostra questo racconto lungo (e siamo sempre qui quando si tratta di Peter, invischiati a dibattere sulla questione non di lana caprina del “o racconto lungo o romanzo breve” – e lui sorride) datato addirittura 1997.
Curiosi e peculiari i protagonisti delle sue opere, attori che paiono uscire direttamente da un romanzo d’appendice. Incuranti del tempo che li circonda, fisicamente estranei al contesto di una quotidianità che vivono solo in funzione dell’interesse personale, sono espressione di un gusto shabby-chic colto, ricco e raffinato, molto newyorkese nei modi e nelle inclinazioni (adeguatamente sprovincializzate) e nettamente in debito col vecchio mondo, specie quello d’oltralpe e d’oltre manica, per le maniere, il contegno, la profondità del pensiero, la consapevolezza del sé. 

“Veniva voglia di applaudire all’idea di vita realizzata che offrivano: sembrava che sino a quel momento avessero vissuto ogni istante, che fin dalla nascita fossero stati preparati proprio per quell’evento: l’apogeo, la dorata serata estiva a cui erano giunti tutti insieme” (p139) 

Cameron inizia presto, insomma, a descrivere la upper-class americana, luce e ombre, pregi e difetti di una società autoreferenziale che porta con sé, nell’essenza di ogni suo discendente, tutti i meriti e le pecche delle generazioni passate, presenti e future. E lo fa anche qui, in “Andorra”, nel modo cui ci ha abituati, o meglio nel modo in cui per lui diverrà abituale: per gradi, centellinando i bocconi, quasi che quelli buoni siano così rari e preziosi da dover essere serviti con cura e quelli indigesti talmente malsani da dover essere somministrati al paziente solo se accompagnati da uno zuccherino di consolazione: una medicina amara, necessaria ed imprescindibile.

“All’improvviso fui sopraffatto da una specie di felicità effervescente e sciocca. Era una felicità esteriore, legata al luogo, una felicità che a volte mi prende quando mi pare di essere nel posto giusto al momento giusto, quando il mondo intorno a me sembra perfetto, ogni cosa disposta ad arte come nella vetrina di una boutique, e io m’arrendo: credo in quella perfezione, mi sento al sicuro e senza più responsabilità, quasi la bellezza del mondo visibile impedisca che mi accadano delle brutte cose. Immagino che sia una sensazione comune e che per questo motivo viaggiamo, stipiamo i bauli e prenotiamo le cuccette, visitiamo le cattedrali e i castelli, sostiamo a guardare le praterie africane e le spiagge sabbiose con al macchina fotografica o il Baedeker in mano, rassicurandoci che la comprovata magnificenza di quel che vediamo in qualche modo ci comprenda e ci coinvolga, e ce ne abbeveriamo per poi perderla nel sonno, fra le lenzuola fragranti di un albergo” (p168) 

“Viaggiare ci dà l’opportunità di reinventarci, di assumere altre identità”
“Se siamo persone perbene, non dovremmo averne bisogno. Una sola identità dovrebbe essere più che sufficiente” (p133)

Poco importa il palcoscenico, sia esso rappresentato dalla dimora estiva di una coppia di Newyorkesi in vacanza, come in “The Weekend“, o, come in questo caso, dalla dorata enclave andorese che ospita un selezionato ed elitario minestrone farcito di expatried Francesi, Inglesi, Americani, Australiani, ben riforniti tutti, nei propri armadi di legno pregiato svuotati e riordinati da solerti cameriere e servitori, di bauli, valigie, panciotti, vestaglie, smoking e scheletri più o meno ingombranti, la cui descrizione non diventa mai petulante ma al contrario si tinge spesso di una vena auto ironica difficile da equivocare.

“Era il luogo perfetto, l’argento caldo nel palmo, il burro che si ammorbidiva nella ciotolina, unico rumore lo sporadico schizzo di un pesce che bucava la superficie dell’acqua nella fontana, il suo universo” (p95) 

“Lei organizzava le nostre apparizioni in pubblico il più spesso possibile, quasi fosse una terapia, come l’esposizione al sole per un bambino itterico. Sembrava che essere una coppia felice dipendesse dal mostrarsi tale agli altri” (p164) 

“Non sei una persona molto sensibile. Forse sei sensibile nei tuoi confronti, in modo anche eccessivo, secondo me, ma non lo sei nei confronti degli altri” (p173) 

“Ho sempre detestato questo svergognato inganno dell’abito, lo stesso delle truccatrici che gironzolano nei reparti cosmetici travestite da fisici nucleari” (p89) 

“Non (era) uno di quei ragazzi inglesi rozzi e nerboruti – i detriti dell’Impero – che zia Charlotte invitava sempre a cena” (p196)

Cameron fin dagli inizi quindi rivela tutta la sua fascinazione per l’antico passatempo delle scatole cinesi creando opere all’interno delle quali una storia ne racchiude in sé un’altra, in un continuo gioco di rimandi, riferimenti, indizi e briciole di pane disseminate dall’autore stesso che furbescamente se la ride, sornione, di fronte ai nostri dubbi e alle minime intuizioni a cui ci concede di arrivare.

La lettura delle opere di Cameron si fa indiscutibilmente gioco metaletterario per quanti livelli di interpretazione il testo è capace di offrire. 
E’ possibile gustare in tutta la sua perfezione l’incontestabile bravura dell’autore quando si cimenta nella difficile arte descrittiva dell’ambientazione scenica, in questo caso identificata da un costante, mai invasivo, riferimento al glorioso periodo del colonialismo inglese, fra grand tours (con cui il viaggio andorese di Alexander Fox può al principio – solo al principio – essere facilmente confuso), piantagioni di teak, ricchi possedimenti nelle terre di Ceylon, madreperle, volumi preziosi rilegati in stoffa di fattura batik
Ed è anche possibile osservare il testo nella sua interezza di opera sociale e filosofica, vòlta com’è all’analisi dell’individuo in sé e in rapporto con la società che lo circonda, prediligendo le parti più introspettive siano esse svolte a monologo o a confronto dialettico tra i protagonisti, specie nell’analisi del rapporto di coppia:

“Sei un uomo orribile. Tu fai finta di essere una persona perbene, uno degli inganni peggiori che esista” (p175) 

“Penso che ti dispiace nella misura in cui sei capace di dispiacerti” (p207)

senza dimenticare la trama vera e propria, un esempio assai riuscito di giallo classico a metà strada tra le indagini poliziesche di Hercule Poirot e il noir di sottomatrice hard-boiled.
Da cosa fugge l’americano Alexander, giunto a La Plata un mattino di primavera con il treno notturno da Parigi? Cosa nascondono i coniugi Dent, ricchi latifondisti australiani trasferitisi ad Andorra anni prima con lo scopo (vero o presunto) di godersi l’unico buen-ritiro europeo a detta loro degno di un certo status sociale? E l’anziana Sophonsobia Quay, che vive con le due figlie zitelle eredi della fortuna accumulata dal consorte – quale delle due donne punta a maritare per prima, con chi e utilizzando quali mezzi?
Che ne è poi dell’anziana proprietaria del glorioso Hotel Excelsior, la saggia Lucille Guinevere Houck, che dicono abiti una delle suite a lei dedicate, trascorrendo gli ultimi anni della vecchiaia tra antichi volumi, gioielli e mobilia di pregio a ricordare i fasti di un passato immortale? 

“ (…) i corridoi silenziosi e senza finestre, illuminati tutta la notte, anno dopo anno, coi temporali e le tormente, come quelli di una prigione, senza stagioni come il fondo dell’oceano” (p220)

E infine, cosa possiamo pensare dei due corpi inerti e disfatti che il mare (?!) ha consegnato nelle mani del Tenente Afgroni, cravatta stretta sulla camicia inamidata e brillantina nei capelli, impaziente di trovare il colpevole del duplice omicidio? 

Buona lettura 🙂

"Il weekend", di Peter Cameron

Più riguardo a Il weekend Cameron insegna al lettore l’arte della lettura lenta e continua. A concedergli fiato, frammentandola, ci pensa lui. Placido – ma risoluto – ti ordina di seguirlo.

“The weekend” è un’opera acerba (la prima edizione è del 1994), a tratti destrutturata, ma contiene in sé già tutti i germogli che andranno poi a comporre, maturati a frutto, le narrazioni successive.

Primo tra tutti, il gusto per il dipinto di atmosfera che tanto piace all’autore, utile e futile allo stesso tempo.

Sono i passi che più abbiamo condiviso su Twitter:

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“Lyle tornò tenendo in mano la lampadina come se fosse una rarità. Era smerigliata, di un tenue rosa conchiglia. <> disse. Tolse alla lampada il paralume di carta marrone e fece il cambio. La stanza si accese di un colore rosato” (p30)

“Per un’estate va bene – rispose Laura – ma ha quella terribile aria da casa in affitto” (…) “Hanno portato via tutte le cose decenti. Ho dovuto comprare delle lenzuola di cotone e della cristalleria. C’erano i bicchieri di plastica” (p49)

Nelle descrizioni degli ambienti predominano le nuance pastello, uno shabby-chic molto retrò che spazia dal rosa confetto, alle mille gradazioni del giallo (“Il colore delle pareti […] una sfumatura delicata ma brillante, come il burro genuino” – p67) , al color acquamarina (p119) di bagni e piscine – onnipresente la dimensione liquida e fredda che Cameron associa, come caratterizzante, alla stagione estiva, malinconica e sensuale allo stesso tempo: dagli specchi d’acqua assoggettati e ricreati ad arte dall’uomo (“<>” – p125) a quelli selvatici, dal fascino potente e inconscio: “Non poteva dire che il fiume fosse più bello di mattina, anzi, c’erano certe sere quiete in cui veniva da piangere a guardarlo: prendeva un colore viola e sembrava fermo, come un livido in fondo al prato. Scorreva profondo e freddo e determinato, limpido e tonificante” (p11)

I passi narrativi, per la maggior parte impiegati in descrizione d’ambiente, creano quasi sempre uno scostamento percettivo: si tratta spesso di inserti creati ad arte all’interno di una scena o di un dialogo serrato e pregnante tra i protagonisti. Quasi come se le questioni si facessero troppo personali, l’autore entra in campo lungo ristabilendo le giuste, e civili, prospettive, come a voler in qualche modo preservare l’intimità e la privacy dei suoi protagonisti, limitando il lettore nella sua conoscenza di fatti e personaggi.

Altro tratto caratterizzante della narrazione, ancora in fieri (e per questo forse ancora troppo accentuata ed evidente), è l’attenzione per quella patina di teatralità, glassata e zuccherosa, o cupa e dirompente, con cui tutti noi, a volte, amiamo dipingerci la vita e su cui lo scrittore Cameron riflette, con disincantata autoironia (usufruendone e, allo stesso tempo, criticandone l’utilizzo):

“Voleva toccarlo di nuovo, accarezzargli la pelle tesa e levigata dell’avambraccio, ma gli parve un gesto eccessivo, troppo consapevole, scontato. Sembrava un’indicazione di scena in un’opera teatrale: (Lyle tocca il braccio di Robert)” (p19)

“<> (…) <>” (p22)

“Durante la partita, con la mazza in una mano e il cocktail o la sigaretta nell’altra, sembrava indifferente, senza una tattica, distratto, ma verso la fine metteva da parte il bicchiere o il tabacco e in pochi colpi concludeva vittorioso la partita. Letale! esclamava, sono letale!” (p60)

“<>” (p66)

“Basta che la conversazione passi dal particolare all’astratto, pensò Marian, e stai sicura che avrai l’attenzione di Lyle. (…) <> <>. <<Quindi tu parli dell’arte narrativa? (…) Ma quella è una forma morta” (p70)

“<> <> rispose lei. <> <> <> <>” (p170)

Cameron in “The Weekend” riflette. Sui rapporti umani prima di tutto, come di consueto nelle sue opere, nelle quali non si può dire di certo che l’azione prevalga sul momento riflessivo, di cui essa è spesso soltanto un pretesto. E su quelle convenzioni sociali che regolano le relazioni interpersonali e a cui, volenti o nolenti, ci troviamo a dover sottostare:

“<> disse Robert. <<Be’, non credo che oggi si possa vivere diversamente, a meno di non essere degli idioti. Ma è una seconda natura, una corazza che copre quella vera” (p130)

“Te l’ho detto che i weekend in campagna con gli eterosessuali possono essere un pericolo per la salute mentale. E’ stato orribile? Avete mangiato hamburger e giocato a croquet?” (p165)

Il mondo di Cameron è un raffinato gioco di scatole cinesi, amaro e commovente: sotto le maschere da teatro che comunemente indossiamo e che –crediamo – ci differenziano l’uno dall’altro rendendoci unici e speciali (l’ereditiera italiana di mezza età, la di lei figlia attricetta hollywoodiana, il gay critico d’arte, la coppia di eterossessuali rigidamente NewYorkesi…) vivono e bruciano i medesimi sentimenti: il timore di non essere amati abbastanza, l’angoscia per il senso della vita, l’amore filiale che porta con se, più che felicità e senso di appagamento, l’ansia e le preoccupazioni per il futuro, nostro e di chi ci sta accanto.

“Ci sono cose che si perdono e non tornano indietro; non si possono riavere mai più, se non nella copia carbone della memoria. Ci sono cose a cui sembra impossibile rassegnarsi ma a cui rassegnarsi è inevitabile. Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma: quello che si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai. Un piccolo bassotto di porcellana delle White Mountains. Una marionetta del teatro delle ombre di Bali. E guarda: un calzascarpe d’avorio di un hotel a quattro stelle di Zurigo. E qua, come un sasso che porto ovunque, c’è un pezzetto di cuore altrui che ho conservato da un vecchio viaggio” (p159-160)

Vi invito a leggere le belle cose scritte, a riguardo, da @FNall.

Buona lettura 🙂

"Coral Glynn", di Peter Cameron

More about Coral Glynn Inghilterra. Una donna comune, non bella, di scarse possibilità economiche ma di ampia capacità professionale, ancora giovane eppure già provata dalle avversità della vita, si ritrova a dover prestare servizio in una grande casa di campagna, umida, fredda, buia, malcurata. Il padrone di questo maniero perennemente avvolto da umidità e pioggia è un esponente della upper class tormentato da un passato oscuro e da un presente ancora più inquietante. La donna, malvoluta dalla servitù della casa ed estranea alla comunità del paese vicino – emarginata a causa della misera posizione sociale e del carattere schivo – deve destreggiarsi tra vicende che suo malgrado si fanno sempre più intricate fra drammatici avvenimenti pubblici e intimi segreti inconfessabili, triangolo amoroso compreso. 

Cos’è, vi sto raccontando, in grande sintesi, la trama di “Jane Eyre”? No, stiamo parlando proprio di “Coral Glynn”. Bene, allora ci riproviamo con un po’ di tracking changes, aggiungendo qualche particolare in più e giusto un paio di ingredienti segreti targati David Cameron: ironia, humor, senso del grottesco e un pizzico (lieve) di cinismo. 

Inghilterra, Leichestershire, primavera 1950. L’infermiera Coral Glynn, una donna comune, non bella, di scarse possibilità economiche ma di ampia capacità professionale, ancora giovane eppure già provata dalle avversità della vita (genitori deceduti da tempo, amato fratello caduto nella battaglia di El-Alamein), si ritrova a dover prestare servizio in una grande casa di campagna, umida, fredda, buia, malcurata. Deve assistere l’anziana e moribonda Mrs Hart, malata terminale. Il di lei figlio unico, il Maggiore Clement, padrone di questo maniero perennemente avvolto da umidità e pioggia, è un esponente della upper class, un reduce di guerra tormentato da un passato oscuro e da un presente ancora più inquietante. Coral, malvoluta dalla servitù della casa ed estranea alla comunità del paese vicino – emarginata a causa della misera posizione sociale e del carattere schivo – deve destreggiarsi tra vicende che suo malgrado si fanno sempre più intricate fra drammatici avvenimenti pubblici e intimi segreti inconfessabili, triangolo quartetto amoroso compreso, composto dal Maggiore Clement, dall’amico di lunga data Robin, che nutre nei confronti del Maggiore un amore forte e dichiarato, dalla di lui moglie, l’energica Dolly, rassegnata ma non troppo ad un matrimonio di mera facciata; e naturalmente Coral stessa. 

Insomma, “Coral Glynn” possiede – non per niente l’autore dichiara di aver impiegato ben 5 anni a concludere l’opera – la tensione della gothic novel di puro, classico, stampo anglosassone e la grazia del romanzo di introspezione, per non parlare delle suggestioni provenienti dalla più tipica “comedy of manners”, sempre anglosassone, il tutto rivisto e reinterpretato da un autore di origine e cultura made in USA (ricordiamolo perché visto l’imprinting dell’opera, assolutamente British, questo “piccolo” particolare potrebbe sfuggirci). Insomma, di materiale su cui riflettere ce n’è eccome. 

Sarebbe tuttavia un peccato rivelarvi di più sulla trama, lineare e quasi scarna per altro – doveroso sottolinearlo nei confronti di chi si aspettasse grande azione e fuochi d’artificio (attenzione a non rimanerne delusi!). Quindi vorremmo soltanto porre l’accento su alcuni temi utili, a parer nostro, alla comprensione del testo. 
  • Prima di tutto, il malinteso. Quel (poco) che accade, almeno nella prima parte di questo racconto lungo, per ammissione stessa di Coral è tutto frutto di un “gran pasticcio”. I protagonisti non si comprendono tra loro, né quando parlano, né quando stanno zitti (vedi Clement e sua madre, oppure nel rapporto con l’amico Robin). Per altro non comprendono neanche se stessi – vittime come sono di equilibri interiori ricchi, complessi e dunque difficili da gestire, tra desideri frustrati di azione e redenzione e conseguente tendenza, delle volte, alla passività aggressiva. Nulla di patologico, comunque: solo la “versione Peter Cameron” della vita quotidiana (*). 
  • La questione interessante è che la mancanza di introspezione psicologica dei personaggi, specie nella prima metà del racconto (forse la più riuscita), declassa il lettore a semplice spettatore, al pari dei protagonisti dell’opera: spettatore passivo e succube delle vicende che “accadono” senza che sia possibile, almeno per il momento, ritrovarne il senso. Pur tuttavia, è sapiente il gioco di Cameron che utilizza questo stratagemma letterario al fine di ottenere il totale e incondizionato coinvolgimento da parte del lettore stesso (perché attenzione, “Coral Glynn” crea assuefazione: inutile resistere, continuerete a leggere una pagina via l’altra “per vedere cosa succede dopo”), effetto brillantemente ottenuto soprattutto grazie al punto di vista interno multiplo, per definizione parziale e tendenzioso.
  • Da qui viene di pensare alla ricorrenza di trama e personaggi, che in questo caso ben si accomunano ad un’altra opera dell’autore “The city of your final destination” (“Quella sera dorata” -> qui) che già nel 2002 riproponeva all’incirca i medesimi spunti di riflessione – villa decadente e triangolo amoroso compreso, sullo sfondo di una grande tragedia pubblica e privata. 
  • Le rivelazioni, gli aiku di tre righe, le parti descrittive viste sempre con l’occhio del protagonista del momento. Ve ne lasciamo alcune:

Voglio soltanto non inacidirmi e non morire dentro come mia madre, e se vivo qui da solo so che succederà. Sento già un qualcosa in me, un qualcuno che va di stanza in stanza a chiudere tutte le porte, a sprangare le finestre” [Clement, p48]


“(…) sulla parete accanto al letto, c’era il quadro di un bulldog col fez che guardava un rospo con il pince-nez e il tocco accademico; il cane aveva la testa inclinata di lato, il rospo la lingua tutta fuori. Sotto c’era il titolo: Amici per la pelle” [Coral, p58]

Forse è meglio perdere del tutto una cosa che stare aggrappati ai pezzi che ci sono concessi” [Dolly, p170]

(*) Chi è Coral Glynn, ovvero la signorina Nessuno, o La Qualunque. Potrebbe essere una ragazza affascinante se solo non vestisse in maniera così sciatta (il vil denaro non c’entra, è proprio lo stile, quello di cui è carente); non è particolarmente brillante e, diciamocelo, certe sue uscite proprio non sembrano il massimo del raziocinio. Non ha particolari interessi e nemmeno intende coltivarli (che so, per avanzare socialmente) e per altro non è neppure una così coraggiosa eroina. Passione e fuoco ardente, poi, non sono attributi a mezzo dei quali potremmo definire il personaggio. Coral è il neutro su cui i colori spiccano, scuri o chiari che siano. E’ il personaggio zero, quello che non esiste di per sé ma rende reali tutti gli altri, in maniera detonante. E’ la miccia che fa saltare la dinamite che da anni riposa quieta tra Clement e Robin, e tra Robin e Dolly. E’ l’espressione (passiva) della società postbellica dell’epoca, tra modernità e tradizione secolare, parità dei sessi, misoginia e classismo (la donna single, indipendente, sessualmente libera, che senza dimora fissa si sposta di città in città per lavorare; l’upper class ancora legata, a doppio filo, alle rendite del latifondo; il maschio che sistematicamente abusa della femmina; una moglie childfree che con serenità chiede il divorzio). 

Il merito di Cameron sta, ancora una volta, nell’essere riuscito a inscenare un “dramma della normalità” assolutamente credibile e ben congeniato dall’inizio alla fine, offrendo al lettore una “suspense del nulla” che lo trascina inevitabilmente, spettatore passivo di una commedia teatrale, fino all’epilogo, per altro inconsueto, spiazzante e rivelatore: come nella vita quotidiana, così in Coral Glynn tutto si risolve, nel bene e nel male. E spesso ciò avviene né grazie a – né per colpa di – qualcuno. Più che le scelte consapevoli, personali, motivate, a far la differenza sono gli eventi minimi, accidentali, fortuiti, gli scarti del tempo e dello spazio; come a dire… “Un giorno questo dolore ti sarà utile”.

Buona lettura 🙂

"Quella sera dorata", di Peter Cameron

More about Quella sera dorata Su richiesta, qualche breve nota in proposito, data la prossima uscita cinematografica. 

Vi consigliamo di avvicinarvi a questa piccola opera fine e delicata non come a un romanzo ma come a una piece teatrale, cui tanto somiglia.
La trama infatti, riassumibile in poche righe, è quasi soltanto un pretesto che fa da sfondo a questa raffinata commedia agrodolce sui sentimenti e sulle relazioni interpersonali.
Il giovane e promettente Omar Razaghi,dottorando all’Università del Kansas, sta affrontando la tesi di laurea: deve stendere la biografia dello scrittore Jules Gund, morto suicida diversi anni prima e autore di un unico capolavoro, La Gondola.
L’Università ha già stanziato i fondi necessari e Omar ha ricevuto un assegno di ricerca, che prevede anche la pubblicazione del saggio; c’è un unico, piccolo problema: la famiglia Gund non ha concesso al ragazzo l’autorizzazione alla pubblicazione della biografia. Omar, per troppa sicurezza e spavalderia, ora si trova in seria difficoltà: l’assegno di ricerca e la borsa di studio sono vincolati alla pubblicazione del lavoro – lavoro che Omar, tuttavia, non ha l’autorizzazione di stendere. Il ragazzo farà quindi ricorso all’unica, disperata soluzione ancora possibile: spinto da Deirdre, fidanzata grintosa ed energica, partirà alla volta dell’Uruguay, dove vive la famiglia Gund, per tentare di strappare agli eredi il consenso alla pubblicazione dello studio.

Questo è ciò di cui veniamo a conoscenza fin dalle prime pagine del romanzo. Il resto, lo verremo a sapere poco a poco: insieme ad Omar, di cui assumiamo il punto di vista, arriveremo a Ochos Rios, bellissima, antica terra di campagna, e incontreremo la bizzarra famiglia Gund: la vedova Caroline, l’amante Arden con la figlioletta Porzia, il fratello dello scrittore, Adam, con il compagno, il giovane Pete.
Omar, interagendo con i diversi personaggi, darà il via ad una serie inarrestabile di eventi, a volte comici, a volte tragici, in una commedia dove davvero nulla è ciò che sembra.
A complicare le cose, l’arrivo inaspettato di Deirdre, un vero tornado che sconvolgerà definitivamente la vita di tutti i personaggi.

Gran parte della narrazione di svolge per episodi, in maniera molto simile al modo in cui scene diverse si alternano all’interno di una rappresentazione teatrale.
Ci sembra quasi di percepire i cambi di scenografia (pochi, e per questo molto significativi: la casa padronale, il giardino, un ristorante, la casa di Adam, l’ospedale), l’ingresso degli attori sul proscenio, o il loro nascondersi dietro le quinte.
Per la prima parte del libro, ambientazione e descrizioni di personaggi e di paesaggi sono lasciate alla nostra immaginazione. Seguiamo solo il punto di vista di Omar: ciò che più è messo in evidenza sono i fatti, le azioni, lo scorrere del tempo e dei giorni. La bellezza di un singolo luogo, quella di una persona. Ciò che colpisce di più l’istinto del ragazzo.
Soltanto con l’arrivo di Deirdre riusciremo finalmente ad avere qualche notizia in più: sarà la ragazza, grande osservatrice, sicura di se’, di intelligenza acuta e pronta, a descriverci – con accuratezza tutta femminile – la villa padronale, l’aspetto delle due donne che la governano e le misteriose dinamiche sottese tra le due, le sfaccettature del carattere di Mr. Adam e del suo compagno.

Dobbiamo prestare attenzione proprio a questa dicotomia, che acquisterà un’importanza sempre maggiore nel corso della narrazione; Omar, nelle prime pagine del libro, si mostra come un giovane di talento certo e arguto, ma indeciso e poco lungimirante.
Ne sono esempi eclatanti la leggerezza nel trattare con l’Università, o la mancanza di chiarezza con la fidanzata, con la quale non si arrischia a pianificare alcun progetto per il futuro, malgrado lei li richieda a gran voce. Impantanato nella sua vita universitaria di studioso e di scrittore (professione che tra l’altro ha intrapreso senza il consenso dei genitori, che lo volevano medico, come da tradizione familiare) e nelle scelte che non riesce a compiere – non ha neppure una residenza stabile, e al momento abita la casa che un’amica gli ha dato in prestito, prima di partire per un anno sabbatico – Omar fatica a destreggiarsi tra le difficoltà che la vita inizia a proporgli.
Ciò è ancora più evidente se si rapporta il suo carattere a quello della fidanzata: Deirdre è una giovane dottoranda: ambiziosa, pratica, svelta. Siamo quasi tentati di prendere le parti della ragazza: lei accudisce il ragazzo, lei lo rimprovera, lei lo spinge a partire per l’Uruguay, in nome della sua carriera universitaria e di un futuro insieme che il probabile licenziamento di Omar renderebbe ancora più incerto.
Omar è invero un ragazzo un po’ sognante: di animo tranquillo, non si preoccupa di analizzare nel profondo ciò che vede; quasi uno spettatore del mondo, scivola sugli eventi e ne è rapito; paesaggi, persone, luoghi, scivolano su di lui, che li fruisce più con l’istinto che con la mente.
Omar entra in casa Gund in punta di piedi e in silenzio perfetto, e il danno che produce è letale proprio perché il ragazzo si inserisce inconsapevolmente nei delicati equilibri familiari scardinandoli dall’interno, senza quasi che la famiglia stessa se ne accorga, se non quando l’irreparabile è ormai alle porte.

Di ben altra natura è Deirdre. Arrivata in Uruguay (per altro, senza essere stata invitata), prende le redini della situazione, analizza, scandaglia, razionalizza. Non solo. Definisce ruoli e persone, giudica, si sovrappone a Omar e cerca di ottenere, con chiasso e irruenza, ciò che lui – pare – non è riuscito ancora a raggiungere.
Se Omar un poco ci indispone, all’inizio del libro, per le sue indecisioni e le sue plateali ingenuità, ora ci troviamo quasi a sostenerlo, di fronte a Deirdre e alla sua determinazione, che potrebbe essere adeguata (e necessaria) nel mondo da cui la ragazza proviene, competitivo, moderno, altamente selettivo, ma che nella quiete antica e misteriosa di Ochos Rios, a contatto con una famiglia dal passato difficile e tormentato, segnato anche dal dramma del nazismo e dell’olocausto, si trasforma in un’invadenza stridente e fuori luogo.
Ed ecco che la decisone di Omar, la prima, vera decisione che il ragazzo prenderà, alla fine del racconto, sarà per noi una rivelazione; il suo riscatto, la sua scelta, la sua destinazione finale. (“The city of your final destination”, come recita il titolo in originale).

Ancora una volta, non tutto è quello che sembra: non è detto che tutte le scelte vadano prese seguendo la razionalità, non è detto che per vivere al meglio la propria vita basti seguire tutti i minimi dettagli di un progetto di perfetta matematica applicata, perché il futuro spesso ci è nascosto e appare all’improvviso; è una strada che non sapevamo di dover percorrere, è una città lontana, una destinazione che non avevamo neppure preso in considerazione.