“Triste America”, di Michel Floquet

 

“Io arrivavo pieno di fiducia. Come quando si va a trovare la famiglia lontana. Tutti quei cugini che non si vedevano da anni, che si farà fatica a riconoscere, ma che sentiamo così vicini… (…) L’America è questo. Noi siamo convinti di conoscerla. Peggio ancora, crediamo che ci assomigli. (…) L’America è un mistero che ciascuno di noi vive a modo suo” (prologo)

triste_america_01Se volete capire qualcosa di più su Trump – non su cosa farà una volta insediatosi alla Casa Bianca, ma su come alla Casa Bianca ci è arrivato – dovete per forza leggere #TristeAmerica, reportage in quindici brevi capitoli scritto in tempi non sospetti (2016) da Michel Floquet, giornalista, anchorman di France Télévision 1 e corrispondente dagli States, in cui risiede da anni.

Continua a leggere

"Venivamo tutte per mare", di Julie Otsuka

More about Venivamo tutte per mare(Ovvero: nelle sbiadite fotografie color seppia che giovani donne stringono tra dita minuscole e conservano poi in scatole laccate, buste gialle di cartone consumato, valigie e bauli di legno, è contenuta tutta l’ipocrisia del mondo che verrà). 
Il testo, annoverato dal New York Times tra i titoli migliori del 2011, non appartiene al genere del romanzo. Riferisce piuttosto al teatro, e in special modo alla tragedia greca classica: luogo deputato, per antonomasia, all’espressione corale delle moltitudini. Nella struttura della tragedia greca, specialmente in quella Eschilea e Sofoclea, che è programmatica a riguardo, al prologo (“tutta la parte che precede il coro” secondo la definizione di Aristotele) succede il parodo, ossia il primo canto del coro. Canto che poi si alterna, secondo una specifica sequenzialità, durante tutto il corso dell’azione scenica, tra episodi e stasimi, ovvero le esibizioni del coro stesso, che successivamente all’entrata in scena sono statiche, ovvero prive dell’elemento della danza che invece contraddistingue il primo canto. 
Costituito da un numero preciso di elementi ed obbediente a determinate, e rigide, regole formali e contenutistiche, il coro rappresenta di volta in volta una moltitudine (di cittadini : Tebani – cfr Sofocle “Antigone” / “Edipo Re”, di anziani : di Argo – cfr. Eschilo “Agamennone”, di fanciulle e/o donne : cfr Eschilo “Coefore”) e ha il compito di illustrare e commentare la situazione che si sta svolgendo in scena. 
La bidirezionalità tra il coro in scena e la moltitudine della folla sugli spalti è sempre forte ed evidente, almeno nel momento più classico della tragedia. Lungi dall’affidare la narrazione ad un’asettica impersonalità, il coro evidenzia, e sottolinea, attraverso l’espressione della moltitudine, il sentire comune e ha un effetto seduttivo ed ipnotico sull’ascoltatore che, liberandosi dall’ “io” della narrazione, si immedesima, invece, nel “noi” della moltitudine, che non è soltanto spettatrice dell’evento, ma pienamente coinvolta in esso, e da esso. 
Questo, in sintesi e tecnicamente, ciò che ci accade anche durante la lettura delle vicende narrate da Julie Otsuka nel suo “romanzo corale”. La questione però, come spesso accade, è altra, più complessa, nascosta tra le pieghe della fruizione del testo. La verità è che rimaniamo affascinati e turbati da un simile espediente narrativo (e scenico), che ripercorre, pur nella sua letterarietà (ma anche grazie ad essa, che non scivola mai né nel sentimentale, né nel patetico) due specifici drammi storici accaduti oltreoceano nella prima metà del ‘900: la tratta delle “spose in fotografia”, giovani ragazze giapponesi vendute dalle famiglie, attraverso la pratica dei sensali, ai connazionali immigrati, che desideravano un matrimonio rapido e sicuro, e quello, parimenti drammatico, delle deportazioni dei cittadini americani di origine giapponese volute da F.D. Roosvelt a seguito dell’attacco a Pearl Harbour. La narrazione, affidata ad un generico “noi” che comprende tutte le centinaia di giovani ragazze deportate in massa, prima dalla terra di origine, e poi verso i campi di internamento, colpisce perché è profondamente, intimamente femminile. Le donne, sradicate dai propri affetti e dalle proprie abitudini, vengono affidate, sole, ad un destino che ha il sapore del Fato – ineluttabile come nella tragedia greca. L’uomo che pecca di ubris (tracotanza, potremmo tradurre) agli occhi degli dei viene condannato. Sta china, non alzare il capo, lascia parlare me – intima il marito appena conosciuto. Lavora sodo, non ti fermare, sarchia, monda, estirpa le erbacce, sfrega la biancheria fino a farti sanguinare le mani – ordina il padrone. Fai il tuo dovere di moglie e soddisfa tuo marito, partorisci i suoi figli – scrivono le madri dalla terra lontana. La dimensione della donna è analizzata e declinata in tutte le sue forme: dai sogni della giovinezza, intrisi di romanticismo e speranza (un banco kimono di nozze; quel bell’uomo visto solo in fotografia, così distinto – sarà il direttore di un negozio, o un capo officina in uno stabilimento, o un contabile?), alle difficoltà della vita adulta sia nella dimensione personale (l’amore, il sentimento, la maternità) sia in quella lavorativa, professionale. 
Si percepisce subito, all’istante, la presenza di una ricerca bibliografica accuratissima che rende le vicende narrate reali, concrete, contestualizzate. La magia della narrazione sta proprio in questo non-sensazionalismo. Sarebbe stato facile scivolare nell’asetticità del reportage giornalistico oppure, peggio ancora, cedere al fascino del sentimentale, scegliendo di raccontare una o due storie particolari, che avrebbero preso il lettore “di pancia” escludendo tuttavia il valore della testimonianza storica e limitando la capacità di immedesimazione. 
Vi lascio con le magistrali fotografie di Dorothea Lange, che per tutta la sua carriera professionale si occupò in primis di migranti e conflitti bellici. Buona lettura. 

"Tangenziali – due viandanti ai bordi della città", di Gianni Biondillo, Michele Monina

More about Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città Allora. Per parlarvi di “Tangenziali” iniziamo da qui: dal “Parco dei Mostri” di Bomarzo (ma a noi piace di più quando se ne parla come del “Sacro Bosco di Bomarzo”).
E’ l’immagine tra le tante suggerite dallo scrittore-architetto Gianni Biondillo che più ci ha colpito, per intensità e significato. Del perché, verrà in seguito.

L’approccio a “Tangenziali” non può prescindere neppure da un altro strumento, da noi utilizzato di rado, ovverosia quello della citazione. Faremo i bravi questa volta, e ci proveremo, con le dovute attenzioni, perché scrittura, arte visiva, udito e memoria sono un tutt’uno nell’analisi di questo testo che è racconto di viaggio, ma anche letteratura, trattato, saggistica. Ovvero, Psicogeografia.

Nel particolare, parliamo della Tangenziale di Milano – no, meglio, dellE Tangenziali, che poi, alla fine, non si capisce neanche quante siano, e SE esistano davvero. Aggiungiamo due individui dall’aspetto inquietante (un architetto che fa lo scrittore e uno scrittore a metà strada tra la musica e le lettere), il caldo torrido dell’estate milanese e una macchina fotografica, ed eccoci qui. Tutto, rigorosamente, a piedi, per un controcanto a due e pitture macchiaiole di mondi, e microcosmi.

Per darvi un’idea della questione, iniziamo da pagina 41 (M Monina), con il paragrafo illuminante sulla psicogeografia e il nostro caro Ballard come precursore per metodo e analisi: “isolamento umano”, “rapporto con le macchine”, “alienazione”, “condomini come metafora della società, autostrade come metafora della vita, aeroporti come non luoghi” e “topos del non-luogo”.

Verrebbe da sconsigliare la lettura ai Non – Milanesi. E forse è d’uopo. Non per questioni di mero orgoglio meneghino o di presunte superiorità regionali, ma giusto appunto per quello che M Monina ci racconta a pag 177, riferendosi all’approccio letterario di G Biondillo: “le sue pagine trasuderanno amore per questa città molto piu’ che le mie” – “e nelle pagine in cui ci sarà odio “riuscirà a essere più incisivo di me”; “un conto è odiare un posto dove sei andato da grande, un conto la città che ha visto da vicino i tuoi primi passi, ma anche le tue prime cadute”.

E di rimando G Biondillo, a pag 157: “Milano si è ubriacata di happy hour, di mondanità, si è (piccolo) imborghesita, ha perduto il suo cuore (…) ha dimenticato di essere centro critico, poetico, artistico, e non solo mondano e modaiolo” – che poi riprende il discorso a pag 208 con il “quando è scomparsa Milano” e la breve dissertazione sulla “provincialità della grande firma”.

Vogliamo dire, è questione di comprensione del testo.
La dissertazione sulle ciminiere di Sesto San Giovanni, che avevano tutte i nomi di divinità greche (pag 42). Se non le hai viste alla luce di un tramonto di settembre, quelle ciminiere – o almeno, quelle superstiti – non è che puoi solo così, immaginartele.
Allo stesso modo, non puoi dipingere nei suoi tratti peculiari Via Corelli e la lunga odissea quotidiana verso Palazzo Niemeyer (un viaggio della speranza attraverso il freddo, la neve e l’ignoto – per non parlare del sole torrido di certi micidiali pomeriggi di luglio inoltrato, raggi di luce accecante che ti si piantano negli occhi, bastardi fino in fondo perché scivolano sotto le alette parasole e ti beccano proprio in fondo alla pupilla, moltiplicati a mille grazie alle particelle di polvere depositate sul parabrezza), se sei completamente digiuno dell’argomento (pag. 70, M Monina).

Per non parlare della descrizione puntuale di alcuni (sempre G Biondillo, pag 205) “borghi storici” con “coerenza urbana” da esaltare nella “loro unicità”. E poi la Bicocca (pag 233, “milanese molto più di altro”) e Santa Giulia (pag 155). E il Parco della Balossa (che ci fa sorridere, perché ci ricorda nonni e lingue perdute: pag 270, “intima ironia del dire dialettale – quella ironia perduta dai parlanti menghini (Baloss – furbo ma anche coglione)”
Perché tutto questo. Per la sacralità della domus, che a noi latini ci rimane un po’ nel sangue, anche a non volerlo. Ecco il perché del “Sacro Bosco di Bomarzo” che ci ha fatto tanto riflettere. Non lo spieghiamo, lo lasciamo all’arte di G Biondillo, noi non sapremmo davvero fare di meglio.

“Leggere è sempre un percorso, spesso irto, difficoltoso. ci sono libri ai quali mi sono avvicinato dopo un  lungo allenamento. Vette strepitose, monti bianchi, o cordigliere della letteratura. Leggere Joice è come fare mille metri di dislivello al giorno per settimane. Occorre una preparazione fisica, una filosofia adatta per avvicinarsi a certe vette. non bisogna correre, non è mica uno sport , nessuno ti dà una medaglia se arrivi primo. bisogna ascoltare il proprio respiro, regolare il passo, essere ben attrezzati, sapere quando andare e quando fermarsi. viaggiare, fare escursioni, leggere, dunque, hanno la stessa finalità: sono discipline che stimolano percorsi interiori atti all’autocoscienza, riti iniziatici, scavi psicologici che utilizzano strumenti e strategie differenti ma non dissimili” (pag 202)

Le città mutano di contesto e di materiale, a dispetto dei nostri desideri (“caducità dei punti di riferimento”, pag. 79); alcuni luoghi si trasformano, divengono inabitabili, atti ad ospitare potergeist e vecchi spiriti maligni (la casa inabitabile, pag 105). Eppure Milano è sempre Milano, è ciò che la rende tale sono la terra a margine (“il territorio disprezzato, pag 128), le case popolari (pag 263), i quartieri dormitorio, la natura manipolata dall’uomo e per l’uomo (la questione del landscape – “santo, madonna o condottiero” pag. 158). Alla ricerca di una verità sempre perduta e ritrovata, e poi dimenticata di nuovo in un circolo continuo di rimandi, ricordi, ed… epifanie: “il varco della tangenziale, e l’epifania perduta, “la verità troppo rumorosa, troppo caotica, troppo oltreumana” (G Biondillo, pag 271).

E poi, come non amarli, questi due viaggiatori del nostro tempo, che cinguettano a piene corde vocali sulle ragazze milanesi e su quella loro “tradizione tutta meneghina dell’humanitas borromaica” (G Biondillo). Adulatori maliziosi, ci hanno conquistato senza fatica, a pagina 56, perché noi ragazze di Città abbiamo il cuore perso, e facile all’emozione.