E’ che a me, di #librinnovando, è piaciuto tutto.
Ora, non mi permetterò di raccontarvi per filo e per segno quel che è successo e quello su cui si è dibattuto. Altri hanno fatto, e stanno facendo, molto meglio di me. Vorrei prenderla un po’ alla lontana, perché a dire la verità sono state proprio alcune sottotematiche particolari, a risvegliare la mia curiosità.
Nei giorni precedenti all’evento ho segnalato il convegno ad amici e conoscenti; di persona, via email, via Twitter. Curiosamente, qualche volta in più di quanto avrei ritenuto standard, mi sono sentita rispondere che le questioni erano un po’ “troppo” – per un pubblico medio-competente. Troppo tecniche o, paradossalmente, all’inverso, troppo poco approfondite.
Ebook? Non me ne occupo, preferisco la carta. Editoria? Naa, ne sento parlare tutti i giorni. Formazione? Non è il mio campo, ci sono i professori. Biblioteche? Non ci vado mai.
Spesso mi capita di domandarmi se oggi ci sia ancora qualche argomento relativamente al quale riteniamo di avere la capacità di dire che non ci interessa. Semplicemente, non credo sia più in nostro potere, soprattutto per quanto riguarda le questioni culturali. Per più di un fatto.
La nostra vita professionale è precaria nel senso più profondo del termine, contratto a giornata o a tempo indeterminato che sia. Perché nessuno di noi può sinceramente affermare di possedere quella certezza assoluta, quella di sapere, intendo, dove sarà tra dieci anni, e – soprattutto – di cosa si occuperà.
In realtà rifletto poi anche su altro.
Ci capita sempre più spesso di diventare genitori ad un’età sicuramente più avanzata rispetto alla generazione che ci precede. Qualche indubbio vantaggio (acume, esperienza, conoscenza del mondo e di se stessi – questioni che forse a 20 anni erano tutt’altro che risolte), se ben gestito, può controbilanciare con lungimiranza le evidenti difficoltà che la medesima età anagrafica pone sul nostro cammino genitoriale: lo scarto generazionale, l’approccio educativo della scuola moderna, lo sviluppo cognitivo dei bambini che al giorno d’oggi risulta assolutamente imparagonabile al nostro.
Se vi è capitato di imbattervi in un bambino di 4 anni intento a sfogliare un tablet, avrete capito molte cose. Una su tutte, l’esperienza della lettura:qualcosa di profondamente, intimamente diverso rispetto a quello che era per noi. Perchè per un bambino di 4 anni ciò che conta sono le parole.
La differenza, lo scarto tra i vari supporti,è minimo. Esiste, ma è uno scarto che presuppone soltanto, e quando c’è (perché non c’è sempre), un momento di fruizione diverso: talvolta non intercambiabile ma quasi sempre non esclusivo, e comunque secondario.
L’idea di fondo è la separazione (ripeto, solo se esiste) delle esperienze sensoriali: tanto quanto il tablet può essere utile durante la giornata, perché te lo porti dalla nonna, nello zainetto, perché sta in poco spazio, lo accendi quando vuoi e ci puoi leggere tante cose sopra, così il libro è il momento della nanna o delle guance rosse di febbre; è il momento della mamma e del papà, del profumo della camomilla calda, della carta liscia, dei segnalibri di legno, delle storie che sono sempre quelle, belle proprio perché le conosci già a memoria.
Non c’è dicotomia, non c’è guerra, non c’è fazione: mettiamoci tranquilli, rilassiamoci. Nulla sparirà, wounded on the battle field. Né il libro, né l’ebook. Almeno per ora.
C’è solo una libera scelta, che nel futuro sarà soltanto dell’individuo adulto ma che per ora è affidata (anche) alla responsabilità e alla sensibilità del genitore che si deve fare primo garante dell’educazione dei propri figli, oggi più che mai.
Ora: se non c’è dicotomia per lui, dico, per quel tipo basso, sotto al metro e dieci, che in questo momento potrebbe girarvi per casa, mi domando perché ce ne debba essere per me.
Dal mio punto di vista non ha (più) senso, perché il mio obiettivo ora come ora non è leggere solo per me, ma leggere anche per lui, facendo in modo di trasmettergli, per osmosi, una nozione di lettura che sia sì corretta, ma anche, e soprattutto, confacente al suo io.
E per farlo mi occorrono prima di tutto informzioni, che posso recuperare soltanto attraverso l’ascolto: di quello che è il bambino e di ciò che desidera per sè.
Ritorno al punto. Ecco perché penso che sia di nostra responsabilità anche tutta una serie di questioni secondarie dentro cui spesso mi smarrisco, perché le vedo archiviate un po’ troppo in fretta, o delegate ad altri, per altro in futuro prossimo di incerta declinazione spazio-temporale.
Come per esempio ri-pensare al valore della libreria. Sia negozio di catena sia indipendente. Un centro nevralgico, una psicogeografia fatta di scambio, comunicazione bidirezionale (lettore/libraio), esperienza sensoriale. Ecco perché, personalmente, mi fa specie trovare, in libreria, il dispenser ben rifornito delle cewingum o l’espositore delle agende – ma non inorridirei se accanto all’edizione cartacea del libro che cerco fosse disponibile pure, (in non so che modo), quella in ebook. Perché, sempre guardando la questione dal punto di vista di quel tipo basso che vi gira per casa, l’idea del formato viene soltanto dopo, solo alla fine di un percorso di scelta consapevole. E mai all’inizio. All’inzio ci sono le parole, o le immagini: e solo poi arriva il come leggerle (o farsele leggere). La scelta non è mai quella del se leggere o meno, ma del come.
Penso anche alla questione della ricontestualizzazione delle biblio-teche, che passa anche dalla semantica lessicale. Il nomedella biblio-teca. La bilbio-teca per un bambino in età pre-&-scolare è qualcosa di molto più social rispetto a quello che era (e rimane) per me.In biblio-teca un bambino ci va non solo per leggere un libro, ma anche per ascoltare qualcuno che racconta (o legge) delle storie, assieme ad altri bambini, o per vederle, quelle storie, magari sul video di un pc.
Le nuove tecniche dell’insegnamento.
Non credo che esse debbano prescindere, oramai, da certe tematiche di fondo quali l’auto-aggiornamento volontario degli insegnanti. Per un puro, semplice prinicipio, totalmente scollegato da qualsiasi discorso relativo alle questioni politico-sociali che entrano in campo quando si parla di scuola: banalmente, le cose da imparare sono troppe per essere condensate tutte in uno, due corsi di formazione all’anno. La formazione di un professore deve essere quotidiana, personale, auto-costruita su esigenze, peculiarità, strumenti e obiettivi propri.
Mancavo da un po’ dal mondo accademico, che ho frequentato anche successivamente alla conclusione degli studi (ndr, la mia laurea, in Lettere Antiche ma con una tesi in Letteratura Italiana, risale all’oramai preistorico anno 1999); quindi forse sono di parte nel dire che ho apprezzato l’intervento delle Istituzioni di Facoltà. Avevo bisogno di un tuffo nella Norma, mi occorreva proprio fisicamente. Da impenitente filologa.
La norma mi ricorda sempre, anche nell’interezza un po’ retorica del linguaggio celebrativo e formale, della presenza forte dell’Umanesimo. Che deve essere certamente ripercorso, ristudiato, declinato alla luce delle nuove discipline e della comunicazione 2.0, ma che è, e che deve essere, sempre presente.
La lingua è studio, oltre che del nostro passato – attraverso cui concepire il presente, e prevedere il futuro – anche del pensiero. E’ attraverso lo studio della regola (difficile, impegnativo), che viene possibile, e facile poi, perché abbiamo le mani già avvezze al mestiere, coi calli che ancora si vedono in controluce, scartavetrare il reale isolando le voci di fondo, arrivando a scoprire, alla fine, il nocciolo delle questioni.
Come dire, qualità e gratuità non sempre vanno assieme, per parafrasare (la terra l’è bassa – come dice la bisnonna).
In conclusione, l’edizione romana di #librinnovando, con i panels tematici, le discussioni animate, il live twitt, mi ha confermato, ancora, qualcosa di cui personalmente sono sempre più convinta: che quest’arte di scavare e scrutare la terra alla ricerca di ogni minima, infinitesimale pagliuzza dorata debba riguardare tutti noi, nessuno escluso, e ogni tipo di esperienza che abbia a che fare con la cultura e la formazione personale: la lettura di un litblog o del quotidiano, la scelta delle esibizioni che il programma della città propone, lo spettacolo teatrale, il film in proiezione al multisala, il convegno in cartellone.
Non possiamo più neppure trincerarci dietro alla delocalizzazione geografica.
Grazie alla tecnologia che per una volta ci viene in aiuto, sempre più manifestazioni, convegni, conferenze verranno, si spera, organizzati e gestiti con un occhio di riguardo non soltanto al pubblico presente in sala, che non è, e non sarà più, l’unica cartina tornasole della bontà dell’iniziativa, ma anche verso tutti coloro che, a distanza, grazie a strumenti quali lo streaming e i social media, avranno la possibilità di ascoltare, intervenire, e perché no, farsi un’opinione.