"Uccellino del paradiso", di Joice C. Oates

More about Uccellino del paradiso I bambini di JCO sono, quasi sempre, bambini abusati. Prima nello spirito e poi, non di rado, anche nel corpo.
C’è questo rumore di fondo, continuo, sordo, martellante, di infanzia rubata, patita, sofferta. Ce l’hai nelle orecchie fin dall’inizio.

Le diciotto ruote degli autotreni che scorrono sull’interstatale – il rombo attutito dai vetri sporchi di un fast food per camionisti, che arriva a far da contrappunto al cuore in subbuglio, tachicardico, di un’adolescente spaurita, ostaggio del padre ubriaco, incastrata a forza nello spazio angusto di uno dei tavolini nascosti tra luridi separé;
il fracasso di motori e attrezzi all’interno di un’officina meccanica, lo stridio della sega elettrica nella ditta di costruzioni edili;
ma anche i colori dell’ardesia degli stabilimenti abbandonati – silenzio ritmico di una campagna incolta – osservati attraverso il finestrino della macchina dagli occhi chiari di una bambina silenziosa costretta ad ascoltare, suo malgrado (con quell’attenzione all’apparenza distaccata, ma ricettiva e costante tipica dell’infanzia) il delirio di un padre sconvolto e ubriaco; uno stream of consciousness alcolico, delirante, a senso unico, alla stregua di un’autoradio gracchiante;
lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote delle biciclette, lo sferragliare dei treni lungo i binari della stazione abbandonata, meta prediletta dei tossici e dei bulli di quartiere; e, sopra a tutto, il continuo, inesorabile borbottio del Black River.

Ogni tanto credi di averlo perso, questo brusio di sottofondo, ma poi quando meno te lo aspetti lo ritrovi, puntuale e ricalibrato – arte della scrittura e dell’immaginazione – nella complessità narrativa di un testo che fa dei rimandi uditivi il veicolo privilegiato per una comunicazione tra autore e lettore che risulta attiva, biunivoca e dirompente perché reale, concreta e, come al solito, iper-contestualizzata.

Krista Diehl è la figlia defraudata dell’adolescenza, vittima di riflesso, condannata non solo dall’ingiustizia subìta, oggettiva e perpetrata dagli organi che invece, quella giustizia, dovrebbero tutelarla e difenderla, ma anche dal biasimo e dalla meschinità della comunità locale e dal livore di una madre ferita nell’orgoglio, palesemente incapace di affrontare le responsabilità della vita adulta. E Krista Diehl tanto più risulta credibile nel ruolo quanto meno se ne mostra consapevole, di questa sua esistenza ai limiti della normalità.
Come se il suo provocatorio rivaleggiare a pallacanestro contro ragazze chiaramente più grandi e più prestanti di lei – che sistematicamente la lasciano a terra con gli arti dolenti per le botte e la pelle piena di lividi e graffi – fosse questione naturale da archiviare con un’alzata di spalle, catalogando il tutto con etichetta “quel che va fatto per crescere” (come vorrebbe il padre Eddy – per propria comodità o mera incapacità di analisi) e non, come appare evidente ad occhi adulti consapevoli, un tentativo inconscio di purificazione catartica – il veleno del dolore dell’animo risucchiato all’esterno, come la tossina del morso della vipera, attraverso le ferite (in qualche modo auto inflitte) del corpo.
Come se la sua ossessione verso Aaron Kruller non avesse quale significato e giustificazione intrinseca – come Krista stessa concluderà, al termine del romanzo – la ricerca disperata e vana del confronto con quelle figure maschili che, chi per un motivo (il padre), chi per l’altro (il fratello) hanno abbandonato vita e responsabilità familiari nel momento più critico.

Sicché, a differenza di altre giovani adolescenti complessate, così abili a mostrare e descrivere i propri stati d’animo, con acume e spirito critico lievemente in contrasto con l’età anagrafica denunciata dall’autore / autrice del romanzo di cui sono protagoniste indiscusse, Krista Diehl non fa mistero della sua totale ignoranza in materia.
Krista Diehl è un fastello di contraddizioni, un vulcano di emozioni che neppure lei, come è giusto che sia, sa spiegare e contenere.
Tant’è la presenza dei molti virgolettati e corsivi, nella parte del libro a lei dedicata, a riportare “parole da grandi” (come spesso succede nelle opere di JCO, si veda “Sorella mio unico amore”) di cui Krista non padroneggia il significato, limitandosi, pedissequamente, ad una ripetizione volutamente goffa e incerta.

Krista Diehl è bambina impaurita innamorata di un padre gigante, dalle mani grandi e forti, partito troppo presto per un luogo dal quale non è mai più tornato; è figlia negletta e dimenticata da una madre sconvolta, sepolta viva sotto l’onta del tradimento che trascina con sé, a valanga, il senso di colpa, il peso del fallimento, la riprovazione sociale.
E’ adolescente alle prime armi, donna acerba quotidianamente fuori posto negli abiti e nel corpo minuto, dalla fragilità intrinseca e disarmante.
Solo che di tutto questo, Krista Diehl, nella sua ingenuità di bambina non ancora cresciuta, non ha coscienza, semplicemente perché, come è giusto che sia, data l’età, non ha ancora fatto propri gli strumenti atti ad una lettura consapevole (e che verranno dopo, attraverso le esperienze della vita).
E’ il lettore, a cui la Oates affida il ruolo di osservatore critico attivo, e non di mero fruitore del testo, a dover applicarsi nella puntuale decodifica dei messaggi nascosti.
Il lavoro di rilettura più difficile deve essere operato sulla figura di Eddy Diehl, il padre fedifrago, reo confesso dell’accusa di tradimento coniugale, il crimine più vergognoso che l’Uomo Perbene possa compiere all’interno del microcosmo della comunità sociale di appartenenza.
Lui, il WASP, l’americano medio: menomato reduce di una Guerra Giusta (una leggerissima zoppia, in realtà, caricata di un significato più grande di quanto effettivamente dovrebbe avere, particolare non da sottovalutare); onesto cittadino e lavoratore responsabile – ricordiamo in proposito l’orgoglio della moglie di fronte alla targa dozzinale, in simil-legno, appesa alla porta dell’ufficetto prefabbricato, che dimostra l’ascesa sociale del marito passato dal lavoro manuale di falegname a quello, di concetto, del capo cantiere; cappellino da baseball, lattine di birra e SuperBowl.
La Oates lascia in sospeso il giudizio univoco sull’uomo per stemperarlo in decine di complesse microanalisi, tante quanti sono gli occhi di chi lo osserva e di chi ha a che fare con lui nel corso del vivere quotidiano; di chi, come naturale, conserva ed esalta gli aspetti buoni, coerenti con il proprio vissuto, e rigetta, in un meccanismo inconscio di autodifesa e negazione, ciò che di stridente e difficile permea il carattere dell’individuo con cui, di volta in volta, si pone in raffronto.
Per Krista e Ben, Eddy Diehl è padre amorevole, forte figura di riferimento; ma è anche, ci dice Krista in un soffio, giusto qualche frase seminata qua e là, briciole di Pollicino che sta a noi raccogliere, un uomo rude, poco incline alla comprensione e all’empatia; un padre padrone (ed è proprio qui, che JCO insinua il sospetto) che a volte emana un sentore di birra neppure così vago e che, in certi momenti, per altro abbastanza frequenti, non permette né accetta il contraddittorio e men che meno le “domande scomode” (la guerra, la menomazione alla gamba, l’intimità del corpo, la morte).
Per Lucille, casalinga orgogliosa dedita all’educazione dei figli e al mantenimento della casa, Eddy è Marito e Padre Ideale, testimonianza vivente di un successo sociale a lungo cercato e finalmente conquistato. Che importano – relegate in un angolo della memoria cosciente – tutte quelle assenze ingiustificate, il puzzo di alcool, l’indifferenza verso il corpo della moglie?
Per i parenti, Eddy Diehl, un bell’uomo dall’aspetto massiccio e rassicurante, possiede un carattere forte, vigoroso, da vero leader.
Per la famiglia Kruller e per alcuni conoscenti, è soltanto una “testa calda” da cui stare lontani.

La questione è che tutte noi, in qualche modo misterioso che ha del poetico, nonostante la violenza, lo squallore e la povertà, siamo piccoli uccellini del Paradiso.
Lo è Krista, nella sua ingenuità di bambina tradita.
Lo è Lucille, nella sua perfetta ignoranza del mondo, persa, morta e sepolta, nella vana ricerca di un American Dream idealizzato e impossibile da recuperare, semplicemente perché mai esistito.
E lo anche, e soprattutto, Zoe Kruller, cosce e seni torniti in un corpo minuto e sensuale, messa in piega e permanente dorata, talento, energia e brama di esistere.

Uccellini del Paradiso da cullare e proteggere – e, nel caso, da lasciare andare, aprendo le mani verso il cielo senza rimpianto alcuno. 

"Sorella, mio unico amore" di Joice C. Oates

More about Sorella, mio unico amore
Stordisce questo pezzo di bravura della nostra Oates. Ci devi mettere impegno, mente, cuore, e una forza fisica che ad oggi poche letture francamente suscitano ancora, per sondare ogni lettera, ogni parola, ogni sfumatura nel linguaggio, ogni collegamento nascosto. Occorre scavare a viva forza e violentarne la lettura; ma che risultato. Il libro è un tutto contro tutti magnifico e potente, una lettura di metatesto che spinge ad una fruizione attiva a partecipe, pressante, instancabile, indefessa. Non puoi mollare, non puoi rassegnarti, non puoi lasciarlo a metà. DEVI continuare, malgrado la fatica di una prosa volutamente difficoltosa e in alcuni momenti così simile ad uno “stream of consciousness” tra i più classici e riusciti, una consecutio temporum complicata da repentini flashback & forward, una dimensione monumentale.
Un libro contro i libri, quelli da spiaggia, quelli da thriller facile, quelli scritti “grandi” e la sovraccoperta rigida con tanto di fascetta pubblicitaria di grido. Un libro contro la massificazione della letteratura, della stampa e in generale della parola scritta; contro la desensibilizzazione sensoriale prodotta dal sensazionalismo cinematografico di stampo holliwoodiano.




E che strano, ci si può domandare se questi libri-contro siano sempre esistiti oppure se siano un bel prodotto di questa new economy, di questa crisi evidente, di questo si-ricomincia-da-capo.




Ci piacciono i virgolettati sulla sintassi “degli altri” contrapposta a quella di Skiler, tutti una citazione di frasi fatte, molto presenzialiste, molto da cerimonia, molto glamour così vicine al metatesto di Yates (ricordi, tutti gli “adorabile”, “magnifico”, “meraviglioso” di Easter Parade). E’ sufficiente aprire il libro a caso: “pittoresco”, “storico”, “traumi non superati”, “completamente isolata”, “in compagnia” (di un’altra donna).
Un libro contro il successo ad ogni costo che cela, nasconde e all’occorrenza dimentica gli orrori dell’esistenza, tutti infilati poi a forza nel nostro subconscio o, peggio ancora, costretti, morti e insanguinati, in un buio, muffoso locale caldaia di una “meravigliosa” villa di provincia in stile neo-pseudo qualcosa che più artefatta di così non si potrebbe.
Un glorioso contro-inno venefico, un’esaltazione al contrario di quella psichiatria da spettacolo il cui unico scopo è il voler ravvisare patologie del tutto immaginarie per giustificare poi la sperimentazione e la somministrazione di qualsivoglia farmaco dagli effetti collaterali non ben specificati; un’invettiva mal celata verso le multinazionali caterpillar, verso la ricerca genetica disgiunta dall’etica, verso l’affermazione sociale che va a discapito della famiglia e della vita di coppia. Curioso e sottile, in un duplice gioco di specchi, il fatto che la Oates attribuisca il ruolo di “paladini della famiglia e della cristianità” (e dei valori conservatori legati alla casata Bush) proprio a coloro che meno incarnano, con le loro azioni, il ruolo di Padre e Madre.
E che dire del povero Skyler, così lontano dal figlio che il buon padre di famiglia (WASP così buono, così onesto, così fedele, così affermato, così INTEGRATO – ? – ) vorrebbe possedere e mostrare agli altri quale simbolo della sua ascesa sociale, economica, culturale: accusato di omicidio, depresso, impasticcato, esautorato dalla vita e dalle scelte che essa impone, trasandato, irrimediabilmente alterato nella psiche e nel fisico.
E ad evidenziare l’alterazione mentale di chi, da genitore, non riesce più a verificare lo scarto tra l’ideale e il reale, ci pensa la Oates, descrivendo il figlio perduto prima attraverso i rimproveri della madre (al momento della foto per le cartoline di Natale: sta dritto, non stare curvo, per dio non zoppicare, non fare smorfie), poi attraverso le sensazioni del figlio (eppure, a Skyler NON sembrava di zoppicare o di fare smorfie) e infine attraverso il magico specchio della medesima fotografia perduta e ritrovata: un ragazzo esile, timido, sorridente, “quasi sereno”, come Skyler 19enne vede se stesso.
Eppure, forse (non lo sappiamo), al contrario di ciò che succede ai personaggi di Yates, Skyler ce la farà. Come nel finale del magistrale “The Truman Show”, la vita si Skyler si chiude proprio nel momento in cui vorremmo sapere “cosa ne sarà di lui”. La sua vita, vissuta per anni sotto i riflettori di una notorietà indesiderata, sondata in ogni suo più intimo dettaglio dalle dita umidicce di un pubblico morboso, viscido, insistente, scandaloso, impuro, dal momento dell’epifania in poi ci sarà sconosciuta: lo spettacolo è finito, le luci, sul palcoscenico, finalmente si spengono.