"L’alba di Talulla", di Glenn Duncan

More about L'alba di Talulla Nuovo, appassionante capitolo della saga del Moderno Lupo Mannaro, che vede protagonista non più il caro, oramai estinto, Jacob Marlowe (di cui avevamo parlato qui) ma la rispettiva consorte, Talulla Mary Apollonia Demetriou, Lulu per gli amici più intimi. Glenn Duncan non ci fa rimpiangere la figura maschile protagonista del primo volume, presi come siamo nel vortice della narrazione e dall’energia, vigorosa, erotica, animalesca, di un’eroina femminile che finalmente si riappropria con destrezza di tutte le caratteristiche tipiche di un personaggio di successo. 

Talulla Rising è racconto horror, gothic novel, pulp fiction, pregno com’è di fenomeni soprannaturali, sangue – bevuto e versato – e atmosfere mistiche (da una Londra di fascino Vittoriano alle mura bianche di calce e luce lunare del monastero sconsacrato, in terra Greca). Eppure è anche spy story, grazie al tema ben identificato dei complotti internazionali tra società segrete paragovernative e cellule deviate che si contendono, in una lotta senza esclusione di colpi, fra tradimenti, doppi giochi e azioni sul campo degne di Ludlum, il controllo e il dominio su licantropi e/o vampiri (o il merito della loro estinzione definitiva), ma anche diario epistolare, riflessione intima, raccolta di haiku

Qui, in redazione, noi Talulla ce la immaginiamo bella tonda, femminile, braccia forti e seno evidente. Chè siamo un po’ stanchi di queste figurette pallidine, davanti e dietro piatte come tavole da stiro, lacrima facile, spalle curve, occhio languido e sgomento. La forza e la concretezza di Talulla stanno in una compresenza che diviene ad un certo punto paradigmatica: come in lei convivono l’essere umano e il mostro sovrannaturale che – ribadito perentoriamente nel corso di tutta l’opera – non possono essere disgiunti l’uno dall’altro ma al contrario si compenetrano a vicenda, inscindibili, così Talulla è donna e madre, combattente coraggiosa ma allo stesso tempo figura femminile delicata, romantica, appassionata, che ricorda con ardore, nostalgia e rimpianto la breve stagione d’amore passata con l’amato ma che, con evidente senso pratico (senso pratico che l’autore spesso esemplifica attraverso il ricorso alla voce della madre defunta, che Talulla immagina di udire ancora), considera inaccettabile il ruolo di giovane vedova votata alla castità imposto dalla corrente morale (umana). 

Duncan gioca con noi, agile, e lo fa su diversi livelli, stratificati, analizzando vari temi cui occorre prestare attenzione. 

Fortissime per esempio, per lingua e significato, le pagine iniziali sulla maternità (e stupisce – ma forse no – che a scriverle sia stato un maschio): l’atto fecondo di dare la vita attraverso il parto ha come necessaria conseguenza l’espulsione del bambino dal ventre della madre ma non altrettanto necessariamente – e succede spesso – la nascita immediata del sentimento di amore materno verso il neonato. 
La maestria di Glenn Duncan in questo caso è duplice. Senza perdersi in filosofiche interpretazioni dell’argomento, da una parte accenna alla questione, finto vago, attraverso un espediente magico e perfetto: il ricordo ossessivo di Talulla per uno spot pubblicitario di una nota marca di pannolini per neonato. Nel più chiaro e tipico dei cliché moderni sulla maternità, la madre rappresentata in televisione ha pelle e capelli come fosse appena uscita dal centro estetico, indossa vestiti di un bianco verginale, puliti e stirati, e sorride, composta nel suo amore immenso verso la creatura (naturalmente anch’essa sorridente, pulita e vestita di tutto punto) che tiene tra le braccia. Talulla immagina, nel delirio dei pensieri pre (e post) maternità, che la donna in questione, con una torsione di busto degna dei migliori stop-motions di Tim Burton, giri il capo verso l’esterno del televisore, scoccando uno sguardo indignato e disgustato verso la Madre Indegna Del Momento. 

Dall’altra parte, Duncan tende un filo rosso che si dipana lungo tutto il progresso della narrazione e che parte dall’idea di Talulla di aver consapevolmente (e quindi colpevolmente) abbandonato il neonato maschio nelle grinfie dei rapitori – che con un assalto mirato lo hanno strappato alle braccia materne pochi minuti dopo la nascita – a causa della sua tardiva reazione all’assalto; reazione tardiva dettata dall’indifferenza (e forse anche dal fastidio) provata nei confronti della creatura uscita dal suo ventre di mostro. Peccato che questa interpretazione della questione (lo sappiamo noi, lo sa Duncan, ma non lo sa Talulla) proprio non regga. 

In verità non ce n’è una che non ci piaccia, di figura femminile presente nell’opera, anche perché Duncan non fa mistero della sua viscerale passione per il sesso femminile che trasuda da ogni suo approccio descrittivo verso l’altro sesso: si va dalla bella Madeline, bionda lunare sempre pronta stupire se stessa e chi la circonda, all’amore senza tempo della madre-vampira, per arrivare alla chioma rossa – tutina di lattex e coscia tornita – di Josephine, tutta compresa nel suo ruolo di vampira-in-carriera. 

Malgrado le scene pulp, il sesso violento, il sangue versato, la tematica horror e lievemente trash, Talulla rising è per noi un libro dalla femminilità prorompente. Le donne sono i personaggi chiave del romanzo, eroine a tutto tondo per altro in contrapposizione con maschi che per una volta – santo cielo! – non vengono presi, in primis dall’autore, troppo sul serio: si va dai machi super pompati e anabolizzati che passano la loro vita a giocare con pistole e fucili sparattutto (!) nel tentativo di sdoganarsi da vecchie madri e sorelle iperprotettive a cui avevano votato infanzia e adolescenza, a energumeni paleopreistorici – ascella pezzata e microcervello, pugni, alitosi e aggeggio sempre pronto allo stupro – a giovani lupi mannari che, una volta rapiti dall’estasi dionisiaca, dimenticano qualsiasi responsabilità etica, civile, morale. 

Se per certi versi Talulla rising dovrebbe essere seguito con distacco, senza tante pretese di immedesimazione, assaporando gli eccessi, le atmosfere pulp e il divertimento che ne consegue, dall’altra occorre di necessità soffermarsi con attenzione sulla parte più intima del romanzo, per godere appieno della scrittura e dell’arte di un narratore che affabula e rapisce. 

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Un ringraziamento particolare agli amici di @Bookrep e @isbnedizioni (@albaditalulla) che con pazienza e perizia sono riusciti a domare un file #ebook particolarmente… capriccioso. Grazie!

"L’ultimo lupo mannaro", di Glenn Duncan

Jacob Marlowe è uno di quelli che se un sabato sera te lo presentano nel privè di una discoteca ci dovresti andare larga, perché l’istinto (sic) ti dice che la frequentazione assidua potrebbe portarti solo dei grandi guai.

Ce le ha tutte, nessuna esclusa: beve, fuma, se occorre si fa pure di amfetamine; non si innamora mai, fa sesso variegato (e pure, a sentir lui, di gran qualità) usufruendo unicamente, per altro, dei servizi ben remunerati di escort di comprovata esperienza & gnoccaggine estrema.
Tra società offshore e conti esteri cifrati, cambia spesso numero di cellulare e non si capisce mai dove stia, né di residenza né di domicilio.
A ciò aggiungi modi sopraffini, vestiario accurato e un certo non so che di snobismo un po’ dandy, così, nel modo in cui sceglie una bottiglia di whisky o in cui, bel principe tenebroso alla maniera della premiata ditta Charlotte, Emily & Anne Bronte, lo sorseggia appoggiato alla pietra di un caminetto scolpito, illuminato dalle ombre soffuse di un fuoco invernale scoppiettante, le spalle rivolte agli scaffali di una biblioteca antica e preziosa. Proprio uno di quelli che fanno la felicità (e l’infelicità) di noi ragazze perdute. Aridaje. (“E di peli | sul petto | ne ha un mar”, per citare quelli della Disney che, per una volta, ci avevano azzeccato; a voi scoprire dove).

Passato questo attimo di femminile smarrimento, proviamo a dedicarci anima e corpo all’analisi dell’opera, che si colloca giusto a metà strada tra il diario epistolare, il racconto horror, la spy story, la gothic novel, il trattatello filosofico e una raccolta di haiku. Tutto mescolato insieme, una mistura potente e venefica di subcultura pop che neanche Chuck Palahniuk nei suoi momenti migliori.

Jacob Marlowe è un tizio stanco. Anzi no; ne ha proprio le palle piene, triturate. 
Che poi JM sia stanco dell’immortalità, è questione accessoria. E’ che oramai ha provato di tutto: ha abbracciato la filosofia stoica, ha affrontato con socratico candore le avversità della vita, si è dato alla pazza gioia del “Maiale Soddisfatto”. Eniente, lo scoglionamento, presto o tardi, arriva per tutti, altro che Edward, macchine di lusso, letture profonde, musica da camera, godimento interiore. Che dire, tanto vale farsi ammazzare. Peccato che poi “arriva sempre qualcos’altro” a rovinarti il progetto.

Via, ne ridiamo anche un po’, di questo “Jacke” (ohssì, ci viene in mente proprio “QUELLO LI’”, di Jacob, quello carino, tutto muscoletti cinematografici e buone intenzioni e sguardo da duro), che tra il serio e il faceto ce li distrugge tutti, i cliché del genere, uno per uno, uno in fila all’altro, senza preoccuparsene troppo, della nostra reazione di fronte al fattaccio (orrore e raccapriccio).
E comunque dovremmo rassegnarci visto che tutti sembrano, in un modo o nell’altro, averci preso gusto nell’inviarci messaggi neanche troppo subliminali sulla questione licantropi e vampiri, con buona pace di Stephenie Meyer.

Ché, alla fine, il licantropo è un pover’uomo neh. Non è così figo d’aspetto, non vola, non ha poteri soprannaturali. Insomma è un poveraccio che una volta al mese si ritrova, per sfiga ricevuta, prigioniero di un corpo che pur non appartenendogli fa innegabilmente parte del sé, un subconscio ingombrante e trattenuto a stento: tre metri di altezza, peli dappertutto, unghie e zanne fastidiosissime e purulente; privazione del linguaggio, fame pazzesca ed erezioni incontenibili. C’è di che compatirlo.
Anche i vampiri per altro non è che se la passino così bene. Possono pure essere glamour, stavolta, ma continuano ad essere lievemente infastiditi da tutta quella serie di piccole defaillance che hanno così tanto urtato la nostra SMeyer da farla capitolare sul più bello: luce del sole, paletti di legno, carenza di sesso, fame di sengue umano, insomma tutto l’armamentario.

Sicché, leggi di Jacob Marlowe e ti prende questo senso pungente di vendetta compiuta, sospiro di sollievo, catarsi dell’animo a sentire le sfighe di quest’uomo che, pur non essendo più tale, conserva in sé la presenza, forte, potente, ossessiva dell’Essere Umano – esemplificato dalle anime delle centinaia di persone uccise, massacrate, sbranate e poi divorate pezzo a pezzo che fanno capolino, di volta in volta chiamate in causa quasi fossero voci di coscienza perduta.
Jacob Marlowe è, e rimane, pur nella sua bestialità truculenta, un essere umano con tutte le sue debolezze e soprattutto con tutte le sue sfortune, che poi si identificano, guarda caso, negli incubi peggiori che attanagliano i sonni di noi comuni esseri umani: il terrore per la solitudine, la paura di perdere la persona amata o quella parvenza di serenità appena conquistata, magari dopo anni (…o secoli) di agonizzante fatica, l’angoscia per una vita di cui, alla fine (causa lavoro, vita privata, merde varie) potremmo divenire soltanto spettatori passivi.

Edward Cullen è un compromesso che la natura di Jacob Marlowe non può accettare: hai voglia a parlare, fino a che l’espediente letterario ti offre la possibilità di seguire una Vegandiet d’autore, massacrando cervi e caprioli in sostituzione della carne umana. Hai voglia a celebrare la vita da vampiro fino a che il tuo bellissimo incarnato risplende alla luce del sole mentre Eli, con la sua fastidiosissima autocombustione spontanea, è soltanto un vago ricordo, darwinianamente sepolto nei recessi della memoria storica di una letteratura che affonda le sue radici addirittura nel Satyricon di Petronio.

La questione più interessante è però l’origine di questa riaffermazione del sé, di qualsiasi sé si tratti. Che non viene direttamente dall’autore, ma nemmeno da un personaggio maschile. E’ Talulla Mary Apollonia Demetriou, che solo ad abbreviarne il nome si farebbe sacrilegio, ad indicarci la via, riappropriandosi di un carattere femminile fortissimo; l’intelligenza sicura, tagliente e la personalità consapevole di se stessa e del mondo circostante la differenziano inequivocabilmente dalle altre “eroine” del suo tempo.
La vita del licantropo (come quella del vampiro) non è fashion, e non lo può diventare, malgrado tutti gli sforzi – e le reinvenzioni letterarie – possibili.
E tuttavia, proprio perché non è degna di essere oggetto di scelta consapevole, diviene degna di essere vissuta.
E così è anche – e soprattutto – per la scrittura: il genere letterario, con tutti i suoi archetipi e topoi, rimane intatto, scevro da ogni rielaborazione successiva allo standard; ma proprio grazie a questo sostanziale principio di “autoconservazione” si ricontestualizza e diviene attuale, e crea da se stesso, senza alcun deux ex machina, quel principio della condivisione del sentimento che sta alla base dell’immedesimazione attiva, e riuscita, tra lettore, autore e personaggio.

Buona lettura 🙂