“Doggerland”, di Élisabeth Filhol (trad. Giovanni Bogliolo)

“- Come te lo immagini il nostro futuro? (…)

– Non vedo che cosa possa sbloccare la situazione

– Una rivoluzione dei costumi, un cataclisma planetario?

– Basterebbe un evento straordinario. Con un reale costo umano e finanziario (…)

– Un evento capace di farci rivalutare il rapporto rischi benefici”

Difficile dire quanto questo libro sia adatto al presente che stiamo vivendo; difficile dire quanto la lettura sia impegnativa – per via del modo in cui Filhol affronta il momento dello scrivere: pagine densissime, senza pause, nemmeno un capoverso di respiro. Filhol scrive così – e credo che, per molti motivi, “Doggerland” sia l’opera della sua maturità stilistica.

L’amore ai tempi del petrolio, si potrebbe pensare. La verità è che “Doggerland” si inserisce per tanti temi all’interno di una narrazione fiction ben precisa. Altri esempi recenti, ciascuno con le proprie particolarità, sono “Turbine” di Juli Zeh e “L’America sottosopra” di Jennifer Haigh. In “America sottosopra” l’autrice, originaria della Pennsylvania, racconta la storia (vera) di una comunità rurale proprio della Pennsylvania devastata dallo sfruttamento del sottosuolo effettuato attraverso il contestatissimo metodo del fracking. In “Turbine” invece Juli Zeh (scrittrice tedesca, laureata in legge, specializzata in diritto internazionale) descrive le conseguenze che la costruzione di un parco eolico produce all’interno di una comunità di provincia, fuori Berlino. Filhol non è nuova a queste tematiche. Io incontrai le sue storie nel 2011, quando in Italia uscì “La centrale” che racconta, attraverso le parole di un personaggio di finzione, la vita precaria degli operai interinali che lavorano negli impianti nucleari francesi. In “Doggerland” avviene il medesimo processo: attraverso la storia di Marc e Margaret, lui ingegnere impegnato nell’avanguardia della tecnologia di estrazione off shore, lei geologa e ricercatrice universitaria, Filhol porta all’attenzione anche dei non addetti ai lavori la lotta di potere che da anni tiene in scacco gran parte del Mare del Nord. Uno dei luoghi del pianeta in cui è più aspra la competizione per il controllo del sottosuolo, ricchissimo di idrocarburi, ma anche un ambiente naturale unico, all’interno del quale è possibile recuperare le tracce di un mondo rigoglioso e popolatissimo, travolto da un cataclisma naturale più di ottomila anni fa.

Gli argomenti che un tema del genere può sollevare sono evidenti: la climatologia, la geologia, l’economia petrolifera, la deregulation neoliberista di matrice Tatcheriana, le politiche ambientali. Ma anche il ruolo dei media nella percezione della realtà, l’approccio contemporaneo del tutto subito, lo sviluppo ipertrofico della tecnologia, l’incapacità dell’essere umano di percepire e valutare il rischio.

Filhol li affronta tutti, con grande competenza e capacità di sintesi e approfondimento. La narrazione di carattere finzionale è abilmente intrecciata alle parti più divulgative all’interno delle quali l’autrice, con l’escamotage del punto di vista multiplo, di volta in volta si sofferma ad analizzare le ragioni dell’uno e dell’altro fronte: da una parte la necessità di approvvigionamento di un bene il cui prezzo, più di ogni altro, influenza ogni minuto dell’economia globale, dall’altra il bisogno di recuperare l’eredità di un passato drammatico che potrebbe aiutarci a comprendere il futuro – e il perché di tanti fenomeni antropologici e climatici.

” (…) allo stesso modo oggi molti scienziati o semplici cittadini suonano il campanello d’allarme, lucidi, chiaroveggenti di fronte a ciò che si prepara, ma senza mezzi per agire né un vero ascolto, dato che quelli che hanno le redini in mano si tutelano, perché sono in gioco interessi colossali e non hanno nessuna voglia che la macchina si fermi e neppure rallenti”

La scrittura della Filhol è strutturata e preziosa, un fiume in piena che travolge; bisogna solo accettarla, farsi trasportare. E’ sempre presente questo senso di urgenza nel suo raccontare in tensione continua con la necessità di frenarsi per la tecnica, tutto un respiro che si deve imparare ma che poi, una volta preso, ci viene naturale: difficile poi abbandonarlo, amare qualcos’altro. Diventa benchmark, punto di confronto. Colpisce di Filhol l’assoluta sincerità: la capacità di buttare in faccia al lettore tutte quelle verità sgradevoli che si tende sempre a ignorare o seppellire. Quello che cerca Filhol è un lettore attivo, capace di ragionare sopra le parole; rifugge il rapporto di pancia: non ha come scopo lo scuoterlo, il prenderlo a pugni, il sensazionalismo a tutti i costi, il devastante. Filhol, semplicemente, racconta. Sarà il lettore a decidere sui propri sentimenti: è lasciato libero ma proprio per questo non potrà fare a meno di tenere in considerazione ciò che Filhol suggerisce, garantendole un’autorità nello scritto singolare – e antica.

“(…) la sua maniera di procedere, non progredendo semplicemente dal particolare al generale con una giustapposizione di impressioni, ma creando una cornice unificatrice in grado di accoglierle e poi di affinare, di alimentare e di riempire la cornice con un viavai, come nel calcolo per dicotomia, di avvicinarsi alla verità ora da sopra e ora da sotto, riducendo l’intervallo, e così elaborare passo dopo passo una sintesi, mettendo in concordanza i dettagli per creare qualcosa di globale; e questa visione globale poi farla muovere, emendarla, correggerla se necessario”

Penso che Neri Pozza abbia avuto ardimento a pubblicare “Doggerland”: sono pagine di flusso di coscienza, con una forma che trovo accuratissima, una paratassi continua che crea associazioni di idee, stimola il pensiero, lontano da effetti di stupore superficiale.

“Doggerland” è una storia di distanze, geografiche e dell’anima, su quel che divide: gli anni, il tempo che passa, il lavoro, la scelta degli affetti. Trovo in quest’opera un significato profondo – ed è forse proprio questo significato, che lo rende per me così adatto a questo nostro tempo: il senso del romanzo che interagisce con il reale, che non è nulla senza contestualizzazione, che vibra di conoscenza e impegno, desiderio di condivisione.

Note: Sul mio Twitter trovate altre riflessioni che non possono essere riportate qui sul blog per ovvi motivi di spazio. Non posso fare altro che ringraziare l’editore per l’invio della copia, che avevo richiesto. Perché di Filhol sono sempre stata innamorata, del suo modo di scrivere, delle realtà che non ha pudore di mostrare.

"La centrale", di Elisabeth Filhol

More about La centrale La Francia è vicina, vicinissima, si può toccare con un dito. Venti che calano da Nord-Est, superano le Alpi e arrivano fino a noi. Quello stile asciutto, evocativo, vedo non vedo, fatto di sensazioni e pensieri, più che di azioni.
Impensabile l’idea di affrontare il testo come un’opera compiuta, conclusa, fatta e finita. Perché gli interinali del reattore, un inizio e una fine non ce l’hanno: se ne vanno da una parte all’altra, senza continuità alcuna, né di ruolo, né di tempo. “La centrale” è un buchino di serratura, e questo ci deve bastare. Un qualcosa da cui sbirciare, spiraglio di una porta mal chiusa da un bambino distratto. Un film già iniziato e il buio in sala. 
La vita di Yann, per il lettore, non ha né un inizio né una fine. Dobbiamo accontentarci di episodi accennati, di storie a metà, di persone che incontriamo e che poi, così quasi per caso, vengono abbandonate, perse, e poi magari ripescate dall’oblio del ricordo e del tempo. Persone di cui non sappiamo nulla di più di quello di cui l’autrice ha voluto metterci a parte, pace all’anima nostra.
E che ci possiamo aspettare, dal lavoratore interinale del Moloch-centrale che tutto inghiotte, fagocita, tritura e poi sputa. La “carne da atomo” non ha residenza alcuna, visto che i luoghi di domicilio sono quelli votati, per definizione stessa, alla precarietà dell’esistenza: campeggi, roulottes, case prefabbricate, container, motel, finanche sedili posteriori delle auto. I coinquilini poi sono individui sconosciuti, che oggi ci sono, e condividono con noi schiscetta, chiacchiere, silenzi e radioattività, e domani non ci sono più, inghiottiti dalla strada interstatale lunga e dritta verso una nuova (e sempre vecchia, come già vissuta) opportunità professionale, o dal Moloch. E’ la condizione del lavoratore moderno e precario, aggravata dalla particolare situazione carica di rischi, sottintesi e inquietudine. Non troppo diversa, per la verità, dall’inquietudine che attanagliava la mente (e i polmoni) del bis-prozio “Gigetto” (all’anagrafe, Pierluigi Maria), emigrato in Germania, lavoratore stagionale nelle miniere di carbone della Rhur (mandare soldi a casa, buttar giù due righe al mese per moglie e figli, fare il possibile per rimanere in salute). E’ che si sperava che 60 anni di industralizzazione di massa e progresso condiviso ci avessero cambiato la vita ma a quanto pare non è così.
Con un’aggravante. Quello dell’immagine e della focalizzazione. Diversamente dal mondo nero ed evidente, sassoso e ferrigno dei bacini siderurgici della Ruhrgebiet, descritto nella sua immediatezza di vista, udito, tatto e olfatto nelle lettere del bis-prozio, fogli striminziti a righe di scuola, piegati e ripiegati con accuratezza quasi maniacale, quello della Centrale è un mondo asettico, intangibile, ingannevole. Tutto è bianco latte, pulito, quasi sterilizzato. La centrale rifulge sotto il sole della campagna. Dalle ciminiere, un filo di fumo quasi trasparente, innocuo. L’acqua delle piscine di raffreddamento è azzurra. Di un azzurro puro, trasparente, brillante, sintetico, perfetto. Vien voglia quasi di farsi un bagno, lì dentro.
Si indossano tute pressurizzate, caschi, occhiali, doppi, tripli guanti. Involucro spesso, guscio di tartaruga, che dovrebbe proteggerci dall’atomo e dal sentimento. Solo che la cosa non funziona, in nessuno dei due contesti. La permeabilità inevitabile al sentimento si rispecchia nella vita nomade che solo all’apparenza è libera e scevra da qualsiasi vincolo: in realtà il pegno si paga con lo sradicamento dalla propria terra, dalle famiglie, dai figli, dagli amici, dalle tradizioni. Della permeabilità all’atomo neanche a parlarne, simboleggiata qui non dall’intangibile (troppo facile), ma da un qualcosa di fisico, sensibile, evidente ai sensi, eppure così inerme nella sua minuzia: un dado di acciaio staccatosi da chissà quale alloggio.
Al di là delle impicazioni politiche, per le quali vi rimandiamo alla rassegna stampa sul web, la Filhol ci catapulta, controcorrente rispetto a tanta parte della letteratura moderna, nel mondo (così umano) dell’imprevedibile e consegna nelle nostre mani una verità che vale la pena considerare: per quanto l’Uomo (moderno) pianifichi, coordini, definisca, concretizzi ciò che considera il Mondo, quello in cui ritiene degno e necessario vivere, attraverso procedure rigide ed efficaci, sistemi di controllo e verifica, non sarà mai in grado di eliminare del tutto, malgrado gli sforzi, l’area dell’UNCONFORTABLE, quella zona d’ombra del non calcolato, dell’imprevisto, dell’inatteso.
Ps. Sentiti ringraziamenti al “signore riccio” dello stand Fazi (Torino 2011) che ci ha aiutato nella ricerca di “quel libricino francese con la bella foto in bianco e nero in copertina e l’autore che ha il cognome che inizia per F”. A lui, i complimenti per la pazienza degna di un santo, a noi l’award “il bibliotecario perfetto 2011”.